Anche le cose hanno bisogno | Scoprire sé stessi nel peluche abbandonato in un campo ad Adria (RO)

Quando sono triste, per essere ancora più triste, leggo spesso una poesia di Aldo Nove che si intitola “La merce invenduta piange”. Racconta di come il proprio corpo, il tempo e una ragazza in Giappone che a 25 anni nessuno l’ha sposata, non siano molto diversi dai prodotti che si trovano sullo scaffale di un supermercato: entrambi sono merce e l’unico destino che la società ci riserva è la consumazione (per i primi) e la consuzione (per i secondi). C’è soprattutto un verso che mi sfianca e fa così:

E conosco quel senso così umano
di imbarazzo solo nell’esserci, nell’invadere lo spazio
dello sguardo di una casalinga frettolosa di certe
imitazioni di creme per il volto famose
che non sanno perché ancora stanno lì esposte
come due anziani che si stringono su una panchina al parco
il giorno prima di morire.

In questo verso Nove crea una serie di curve cieche in cui la componente emotiva continua a passare tra l’umano e l’oggetto, invertendo a ogni svolta la gerarchia tra comportamenti umani e questioni merceologiche e quindi di fatto annullandola. Siamo entrambi sullo stesso (ri)piano. 

Guardo la copertina di “Anche le cose hanno bisogno”, terza prova autoriale di Eliana Albertini uscito per Rizzoli Lizard, e penso a quella poesia. È diverso essere abbandonati su uno scaffale ed essere abbandonati in mezzo a un campo situato ad Adria (RO), è diverso essere merce ed essere semplicemente un oggetto, una cosa che non serve più a nessuno. Queste cose abbandonate hanno una libertà che i prodotti invenduti non hanno, una libertà acquisita solo grazie al rifiuto personale di chi decide che non ha più bisogno di te. Non acquistare un prodotto ha a che fare con un desiderio o un bisogno che quell’oggetto non può esperire (o non è abbastanza affascinante per farlo), scartare un oggetto è invece buttare via qualcosa con cui abbiamo passato del tempo, che abbiamo consumato e di cui non abbiamo più bisogno. Abbandonare questa spazzatura kawaii al suo destino di rifiuto, coincide con la condanna a un oblio che non si merita.

Agnese lavora come spazzina in un paesino del Polesine. Cammina tutto il giorno, raccoglie gli oggetti che richiamano la sua attenzione, poi se li porta a casa. I vicini la odiano per l’odore, la mamma mal sopporta il suo lavoro, i servizi sociali sono un po’ stufi di lei e per gli abitanti del paese è “quella strana”. Da tutto questo, Agnese è distante. Non gliene importa poi molto delle altre persone, passa il tempo a visitare case abbandonate e guardare negli occhi pupazzi marci per stare bene. Agnese si rivede in quel senso di abbandono, così per simbiosi salva ogni cosa che lo è stata. 

Si tratta di un’idea estrema di libertà certo, ma è forse l’unica percorribile oggi. Già Tuono Pettinato l’aveva indicata con il suo “Chatwin” (sempre uscito per Rizzoli Lizard), ma vederla riverberare anche nel libro di Albertini fa tutto un altro effetto. Anche perché il fumetto di Tuono aveva, come sempre nella sua produzione, un respiro universale, mentre la verità che ci racconta Eliana Albertini è così intima e piccola che finisce col valere solo per la protagonista. Non è una cosa scontata questa, perché il libro si pone sin da subito lontano da qualsiasi lezione morale che vuole estendere all’umanità intera, per restituirci semplicemente il paesaggio interiore della protagonista.

Non è un caso quindi che l’ambizione principale di “Anche le cose hanno bisogno” è quella di raccontare l’unicità emotiva della protagonista senza farla passare per quella strana o per la matta accumulatrice seriale che vive nel casino più assoluto. Perché se è vero che l’autrice vuole evitare il nostro giudizio su Agnese, il suo impegno nell’evitare di dare giudizi su qualsiasi altro personaggio (anche i meno positivi) è costante ed evidente.

Per farci stare nella testa di Agnese, Albertini utilizza due metodi. Da una parte i suoi disegni cercano di riprodurre le sensazioni fisiche e psicologiche in cui la protagonista si ritrova, dall’altra lo storytelling tenta di replicare i suoi percorsi mentali. Obbligandoci non solo a percepire ciò che lei sente, ma anche a seguire i medesimi schemi di pensiero, l’autrice ci obbliga ad abbracciare il senso della vita della sua protagonista.

Lo stile di disegno di Albertini non si può dire certamente espressionista, eppure in questo libro il succedersi di stili diversi raggiunge proprio quei territori. Il bianco e neri e i colori, la grafite e le matite colorate, i pennarelli e le tempere, raccontano di una percezione del mondo unica e del tutto particolare. Queste differenze nel disegno non rappresentano tanto il modo con cui la protagonista guarda il mondo, ma il modo in cui se lo percepisce addosso.

Anche dal punto di vista narrativo, l’autrice compone il suo libro con elementi altri rispetto al fumetto, simulando anche tra le pagine l’accumulo di oggetti. Ci sono i biglietti della spesa buttati, le inserzioni del marketplace di Facebook, i quadri di Noto Pittore, i volantini dei gatti smarriti, l’avviso dell’amministratore di condominio, pizzini di vario genere e oggetti dei mercatini. Lo storytelling di “Anche le cose hanno bisogno” procede per frammenti e, come la vita della sua protagonista, avanza dando significato e senso agli oggetti raccolti e salvati.

Nelle battute finali mi sembra doveroso tracciare un parallelo con “Malibu” (Beccogiallo, 2019), il libro precedente di Eliana Albertini. Tolta l’ambientazione, non potrebbero essere due libri più diversi. “Malibu” è un fumetto corale in bianco e nero, con una gabbia rigida, soluzioni utili a raccontare l’atmosfera opprimente e senza via d’uscita della provincia veneta (e infatti nessuna delle storie raccontate ha un vero finale, tutto rimane sospeso in un limbo soffocante). “Anche le cose hanno bisogno” ha invece una sola protagonista, una struttura della gabbia molto libera, diverse tecniche di disegno, che contribuiscono a restituire uno scenario non meno desolante ma comunque più speranzoso. Il primo racconta la provincia vista con gli occhi della provincia, il secondo racconta invece la provincia vista con gli occhi di una persona. È forse questa la soluzione per sopravvivere a quei luoghi? Guardarli, esplorarli e viverli fino a piegarli al nostro guardo? Rendere la nostra interiorità così unica ed espansa da riuscire ad avvolgere un paese?

Quando sono triste, per essere ancora più triste, leggo spesso questa didascalia che trovate nelle ultime pagine di “Anche le cose hanno bisogno” e fa così:

Le cose esistono anche quando non funzionano più e quando ti guardano senza segnare l’ora esatta sembra che lo sappiano che per te invece non è la stessa cosa.   


Durante il PawChewGo del 2022 ho intervistato Eliana Albertini proprio su “Anche le cose hanno bisogno”. Trovate la registrazione di quell’intervista qui sotto.

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